Da
piazzale Maciachini imbocchi via Imbonati, passi sotto
il ponte della ferrovia e continui dritto su via Pellegrino
Rossi. La seconda via che incontri sulla destra si chiama
via Semplicità. Il nome è curioso. Ti viene
da chiederti chissà chi è stato che un bel
giorno, seduto in un ufficio del comune di Milano, ha
pensato che era il caso di dedicare una via alla semplicità.
Una volta per dedicare una via a qualcuno doveva essere
morto da un pezzo. Forse qualcuno ha deciso che la semplicità
é ormai definitivamente morta e sepolta, e tanto
vale dedicarle una via.
Se
la imbocchi a un certo punto, sulla destra, ti trovi davanti
a una serranda verde. I vetri sono di quelli che non fanno
vedere all'interno. E poi in ogni caso sulla serranda
ci sono adesivi dappertutto. Non c'é una vera e
propria insegna. Però con delle lettere adesive
bianche ci hanno scritto "fabbrica di biciclette". La
porta é chiusa a chiave e c'é un campanello,
ma basta provare a girare la maniglia che subito ti apre
un signore sulla sessantina dall'aspetto modesto, pochi
capelli e un paio di occhiali con la montatura nera.
Sul
muro un poster di Gianni Bugno in maglia iridata, in piedi
sui pedali. A sinistra c'é una stanza che fa da
esposizione, dove ha sistemato alcune biciclette da corsa.
Sono vecchie e si vede lontano un miglio: telai in acciaio
con le congiunzioni, e poi quei colori improbabili, giallo
oro, amaranto, bianco sporco, carta da zucchero... Dietro
invece c'é l'officina. Scaffali di metallo lungo
le pareti e due grossi tavoli nel mezzo della stanza.
Sui tavoli non potresti appoggiare nemmeno un bullone,
tale è il groviglio di chiavi inglesi, a brugola,
guarniture, pignoni, pedivelle, raggi, pezzi e attrezzi
vari che li ricopre. Appesi al soffitto vecchi telai,
ancora negli stessi colori fuori moda. Per terra, appoggiati
agli scaffali, decine di cerchi e coperture. L'impressione
é di disordine totale e ne sei un po' disorientato.
Poi ti abitui, inizi ad osservare meglio, e ti accorgi
che alcuni dei telai lassù hanno i forcellini con
l'innesto posteriore, e che i vecchi manubri da corsa
che si intrecciano sull'ultimo ripiano dello scaffale
di sinistra hanno una curvatura insolita...
Tornando
nell'ingresso ti accorgi anche che appeso al muro non
c'é solo Bugno ma una grande foto in bianco e nero
con due pistard sulla linea del traguardo. Gli attacchi
manubrio che guardano in giù, i pedali con le cinghiette,
tutto evoca i tempi lontani e le atmosfere perdute degli
anni d'oro della pista. La bici trasformata in attrezzo
ginnico, la velocità pura, spettacolo di forza,
tecnica e astuzia...I due corridori hanno tutti e due
la stessa maglia, che probabilmente era azzurra. Riconosci
infatti lo scudetto tricolore sul petto. Quello di sinistra
é fermato nell'attimo in cui si sta rialzando per
esultare. Lo guardi, poi guardi il signore con gli occhiali
che ti ha aperto la porta e che adesso sta parlando al
telefono, poi ti giri e solo allora vedi sopra la porta
due vecchi diplomi diligentemente messi in cornice, e
cominci a capire.
Chi
ti sta davanti è Giovanni Pettenella, detto Vanni,
ex-pollivendolo di Caprino Veronese trapiantato a Milano,
uno che alle Olimpiadi di Tokio nel 1964 ha vinto la medaglia
d'oro nella velocità su pista davanti a un'altro
italiano, Sergio Bianchetto, e quella d'argento nel chilometro
da fermo, battuto di mezzo secondo dal belga Patrick Sercu,
che doveva poi diventare il re delle Sei Giorni. Uno che
nella semifinale di quelle stesse Olimpiadi, contro il
francese Pierre Trentin, prima di infilarlo come un pollo
sullo spiedo si é concesso ben 21 minuti di surplace.
Uno che nell'agosto del 1968, ai campionati italiani della
pista, velodromo di Varese, pista scoperta in cemento,
del surplace ha stabilito il record del mondo, tuttora
imbattuto, con 1 ora e 5 minuti. La Rai ha fatto tre collegamenti
in diretta e niente, loro sempre lì, immobili,
con Martellini che non sapeva più chi intervistare
e una folla di curiosi che accorreva al velodromo. Il
suo avversario era ancora Bianchetto, lo stesso delle
Olimpiadi, che dopo un'ora e 3 minuti fermo sotto il sole
di agosto, con le mani strette sul manubrio e i piedi
serrati dalle cinghiette tirate a tutta, si é accasciato
sul cemento. E' andato proprio giù come un fico,
svenuto.
Nel
cassetto, custodita dentro una busta beige, ha ancora
la telefoto. E lui invece sempre là, fermo, ad
aspettare l'intervento del medico e che gli convalidassero
la vittoria nella prima volata. Uno che partiva ad ottobre
e andava in Australia, a correre le Sei Giorni, e tornava
a Marzo, in tempo magari per iscriversi alla Sanremo da
isolato. Il tutto per guadagnare la metà di uno
stradista. Ma erano altri tempi, tempi poveri in cui il
francese Trentin quando era andato alle olimpiadi non
aveva ancora il bagno in casa, e lo stesso Pettenella
aveva subito venduto a Tokio la Masi con cui aveva vinto
la medaglia d'oro.
Ha
corso per vent'anni, e quando ha smesso, nel '69, è
stato Direttore Tecnico del Vigorelli sino alla chiusura,
nel 1987. Intanto ha fatto il commissario tecnico della
nazionale italiana pista, sia dei dilettanti che dei professionisti.
Dopo la chiusura del Vigorelli ha fatto ancora qualche
anno al velodromo di Busto Garolfo. Intanto si era anche
messo a fare le biciclette, e quelle da pista portano
tutte la scritta Vigorelli sul tubo piantone. Il terzo
di Tokio '64, il francese Morelon, dirige ancora la pista
in Francia. Lui, che é stato l'ultima medaglia
italiana della velocità, invece se ne sta fra i
suoi telai e i suoi ricordi in un angolo di periferia
milanese, dove ogni tanto qualcuno lo chiama se gli serve
un consiglio, o lo va a trovare se gli serve un pezzo.
A
comprargli la roba arrivano anche dal Giappone, e noi
non sapevamo nemmeno che esistesse... La pista é
stata la sua vita. Starebbe per ore a raccontarti come
si fissano i tubolari con la ceralacca o come si frena
appoggiando la mano guantata sul tubolare e tu staresti
per ore ad ascoltarlo a bocca aperta come un bambino che
ascolta le favole. Fino a ieri le sue storie e la sua
esperienza non interessavano più a nessuno, e forse
ogni ciclista che ami le due ruote almeno un pò
dovrebbe arrossire di vergogna di fronte a quest'inspiegabile
indifferenza. O forse sarebbe semplicemente il caso di
inforcare la bicicletta e dirigersi verso quella serranda
verde ed il mondo di rara bellezza che custodisce, affinché
il tesoro non vada perduto per sempre.
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