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A
Velocity03 Roma sono tornate a gareggiare su strada -
dopo oltre 100 anni di silenzio e dimenticatoio - delle
biciclette a ruota fissa. Questo è il racconto
di uno dei corridori che ha partecipato alla gara con
una fixa.
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Furia silente: come altro descrivere Velocity03 di Roma? Non avrei voglia di dire altro. Ma c'è da dire qualcosa. Bisogna farlo, anche se non ce ne sarebbe la necessità. La voglia di condividere è troppo forte, ora. Tutto inizia molto tempo fa. Più o meno all'inizio del ciclismo, prima che qualcuno (un italiano, come sempre) inventasse la ruota libera. Prima di allora si andava in bici con un pignone avvitato sul mozzo. Non c'era altro da fare. Non esisteva la "ruota fissa": era la bici e basta. Poi tutto cambiò, e fu un bene per la bicicletta: la ruota fissa fu presto un ricordo, stranamente tenuto in vita solo in Giamaica (uno dei tanti fatti strani di questo pianeta). Si arriva ad oggi, in Italia, il 7 novembre 2004. Tempo prima un gruppo di persone, stanche delle asfissianti norme che imbrigliavano le corse in bicicletta ed esasperati dall'incapacità della società italiana contemporanea di reinventare gli spazi metropolitani, avevano portato qui un'esperienza nata altrove, le gare di velocità non comunicate ad alcuna autorità ed effettuate con velocipedi di forma qualunque all'interno delle città. In quell'altrove le chiamano "alley cats races", qui le chiamano "velocity", un bellissimo gioco di parole tra velocità in inglese, vèlo (bici) in francese e city (città) sempre in inglese: velocità in bici in città. Le velocity si effettuano da un paio d'anni. Prima a Milano, poi anche a Roma. Quella del 7 novembre 2004, la terza di Roma, vede per la prima volta da molto tempo - oltre 100 anni - la partecipazione di bici a ruota fissa, così tanto scomparse dalla memoria che sembrano ormai una novità. Io sono uno di questi. Uno di quelli che vengono visti come marziani o, peggio, come uno che "lo fa strano". Ho solo una bici a ruota fissa, non le antenne o le branchie. Non sono solo. Insieme a me ci sono altre persone che ormai non possono fare a meno di questo modo incredibilmente efficiente e semplice di andare in bici. Ancora siamo pochi - 5 su 36 partecipanti - a questa stramba e veloce gara in ambito urbano, gara mai e poi mai comunicata ad alcuno se non a quelli che, per vie elettroniche, sanno di questa esplosione improvvisa di atomi lungo le vie di una città. Ed eccoci qui, un secolo dopo. Il
tempo è grigio. E' l'alba. E' domenica. Le condizioni
migliori per prendere una città e farla nostra.
Ogni partenza di velocity che ho visto finora è
diversa. Questa è assurda. Prima si aspetta di
sapere che fine ha fatto una ragazza che venendo lì
si è fatta male scivolando sui binari bagnati dalla
pioggia della notte. Quando sappiamo che è al sicuro
dentro un'ambulanza che la porterà ai suoi quattro
punti di sutura, pensiamo alla partenza. Mentre si dice "va bene, si parte" si spegne l'illuminazione pubblica e si accende la pioggia universale. Può sembrare incredibile, ma queste sono state le condizioni: luce off, acqua on. E partiamo, nell'assoluta ignoranza della meraviglia di tutto questo. Si parte come frecce. Qualcuno cade sui binari di via Marmorata, ne sento il rumore di ferraglia strisciante. C'è una fratellanza spontanea tra rotafixari: in quattro ci fiondiamo sul lungotevere ad almeno cento pedalate al minuto, cercando contemporaneamente di staccare eventuali incauti inseguitori e di calmare la furia che covava da almeno il giorno prima. Si pedala. Forte. L'unica cosa che ricordo è il silenzio meccanico dei mezzi, sibilanti solo per il contatto delle ruote con l'asfalto già pieno d'acqua. Qualche frase tra noi, per accordare meglio la pedalata. Qualche gutturale segnale d'attenzione agli incroci, stupidamente addobbati di luci a volte rosse. Il silenzio. Il sibilo delle ruote. Le mani che si aggrappano al manubrio. Non ho due gambe, ho solo il mezzo per trasmettere velocità alla bici. Credo di non avere niente di civile o cortese addosso. Quando facevo in moto quel percorso mi sembrava una cosa lunga. Adesso mi sembra che non siano passati due minuti e arriviamo alla fine provvisoria del lungotevere. Bisogna girare e andare sulla Flaminia. Lo facciamo, stavolta in tre, si salta un marciapiede, si accelera su una strada che all'improvviso diventa contromano e insieme corsia del tram. La pioggia ora batte. Rimbalza sull'asfalto. Pedaliamo. Un tram davanti. Scendiamo dalle bici dopo aver solo rallentato, ci leviamo dalla vita il tram (che aveva ralllentato anche lui vedendo questo gruppo assurdo), rimontiamo e ripartiamo sotto il diluvio che continua a cercare di darci noia, non sapendo che non lo guardiamo neanche. Uno di noi comincia a mugolare o ululare di gioia. Lo capisco. Preferisco risparmiare fiato ma vorrei urlare anch'io. Lampi: noi, non il temporale. Vedo per caso uno dei partecipanti riparato sotto una tettoia. Forse ha detto: "ma che continuate?". Ecco lo stadio. Terrore: c'è qualcuno davanti. Orrore: sono di quelli che vannno meno forte. Abbiamo sbagliato strada. Cazzo. Li supero a rotta di collo, sta iniziando la salita. Non so cosa sia successo, poi. Perdo i miei compagni di treno (eravamo un vero treno: a ruota, dandoci il cambio, si andava forte). Strepito sulla salitina dell'Olimpico. Vado forte ma a mio svantaggio: mi sembra di morire. Scendo giù per una scorciatoia e guadagno molto di quanto perso. Però sono solo, mi piace di meno, mi piaceva di più quando con quattro fisse eravamo sibilanti sull'asfalto. Capisco chi va in pista a tirare come un dannato nella scia degli altri o facendo scia, con il solo rumore dell'aria e delle gomme rotolanti. Mi trovo da solo a sputare sangue verso i Parioli. Solo fino a qualche chilometro dopo, quando incrocio uno di noi che ha bucato, e procede lento per arrivare comunque alla fine: un gigante dell'agonismo, si sarebbe trascinato sui gomiti. Continuo, capisco di aver perso molta strada e accelero. Mi bruciano le gambe, sputo ogni tanto, inizio ad essere irritato con tutte le macchine che incontro mentre io sono contromano. Arrivo sull'Appia Antica da un sentiero che speravo essere aperto ed in effetti lo era. Trovo due dei favoriti lungo la strada. Penso quindi di essere tra i primi, almeno questo...No, hanno fatto delle scelte errate anche loro. Dopo averli inseguiti per i restanti tre chilometri, a distanza invariata, mi ritrovo a sputare l'ultimo pezzo di polmone verso l'arrivo guardando una piccola folla già ferma. Qualcosa non ha funzionato nel mio percorso. Quando arrivo chiedo chi è il primo: è Giacomo, con una bici a ruota fissa. E' la prima volta dopo oltre un secolo che una gara libera da restrizioni di qualsiasi tipo viene vinta da una bici a ruota fissa. Quasi mi metto a piangere dalla gioia. Non lo faccio: la prossima toccherà a me. Giuro. |
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